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Oggi il territorio riminese è come nascosto e dimenticato, tagliato fuori dall’asse autostradale, obliterato dalla parete edificata per decine di chilometri e affacciata sul litorale sabbioso, divorato, compartito, frantumato dal turismo. La città distrutta dai bombardamenti per indebolire quella «Linea gotica» che faceva perno proprio su Rimini e Pisa, è stata poi ricostruita con una rapidità, e un’invadenza, che però le hanno portato quella ricchezza necessaria ai restauri, recuperi, rifacimenti, abbellimenti che ancora garantiscono il suo patrimonio culturale. Il culto balneare, che riscopre il vasto arenile e le dune fuori città, data dalla metà Ottocento, quando Rimini prende coscienza di una posizione geologica del tutto eccezionale (al centro dell’insenatura che dalla pineta di Cervia giunge alle pendici di Gabicce) e diventa espressione di una borghesia padana affascinata dall’igiene dell’«idroterapia» difesa e illustrata da medici dell’epoca come Mantegazza e Murri; e poi sarà ancora formazione fisica, ginnastica giovanile nelle colonie del Ventennio, e infine turismo balneare diffuso e internazionale dagli anni ’50 del Novecento.
È necessario superare l’incredibile muraglia edificata sul litorale (tale apparve già allo stranito Fellini ritornando a Rimini nel dopoguerra, e ovviamente a Tonino Guerra rifugiato a Pennabilli) per risalire le valli di un entroterra così ricco e variato da poter essere, ancora, scoperto e riscoperto. E lo si può fare quando soffia un protagonista delle estati riminesi, con una personalità individuale da nominare con le maiuscole: il vento Garbino. Inutile indicarlo come libeccio, e definirne l’identità meteorologica, è il vento dei pazzi, il vento malignazzo, subdolo e beffardo, che rende irritabili e, a dir poco, mutevoli. Quando arrivava («C’è Garbino», avvisava la mia, come tante altre nonne romagnole), mio padre lietamente non mi portava in spiaggia, impraticabile per giochi o riposi. Si andava invece per rocche e torri, pievi e castelli, borghi e mura e teatri: a Montefiore Conca, ammiratissima per la scarpata muraria perfetta e la geometria cristallina, dove c’era una bottega di vasaio che ripeteva gesti e realizzava forme di secolare tradizione; alla Rocca di San Leo per l’alchimista Cagliostro; a Santarcangelo di Romagna (Santarcànzal in romagnolo) per la merenda di cascioni e il mangano della Stamperia Marchi, con il suo patrimonio di peri intagliati e impastati a ruggine; a Sant’Agata Feltria e Novafeltria in quei teatri che sono delle formidabili casse armoniche lignee capaci di echeggiare un secolo d’operetta in spazi minuti d’evocazione fiabesca e i cui colori riportavano alle oniriche giostre e cavalieri che animano le pitture murali di Marcello Dudovich a Villa Amalia, a Villa Verucchio a una manciata di chilometri dai ritrovati affreschi trecentreschi. Anche così si sono formati un immaginario e un gusto.
Spero che il vento Garbino continui a soffiare nelle estati, e a introdurre gli autunni riminesi, e spinga molti a conoscere un universo di bellezza del «Museo Italia», nell’invenzione verbale coniata dal riminese Antonio Paolucci per definire l’intima unità del paesaggio italiano: «La bellezza storica e artistica è pervasiva, entra in ogni piega del territorio, occupa ogni strada della città. Il museo da noi fuoriesce dai suoi confini, è dappertutto».
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