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Effetto Werther e effetto Papageno, come la narrazione sul suicidio può avere un impatto positivo #adessonews

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Si avvicina il World mental health day, che si celebra il 10 ottobre. Un argomento strettamente legato alla salute mentale, che continua a essere in parte ancora un tabù, è il suicidio: i dati, anche quelli relativi ai pensieri e ai tentativi suicidiari, in Italia sono in aumento. I media possono avere un impatto su queste dinamiche, in positivo o in negativo. Ecco perché è importante sapere come trattarle

Tra il 2018 e il 2021 in Italia sono aumentati in modo significativo i ricoveri ospedalieri per pensieri e per tentativi suicidari tra gli adolescenti. È ciò che emerge da uno studio di 29 ricercatori e ricercatrici di università e ospedali diversi, pubblicato in agosto, sui problemi di salute mentale in bambini e adolescenti dopo la pandemia da Covid-19.

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Lo studio ha coinvolto nove strutture ospedaliere universitarie italiane e ha messo in luce, tra le altre cose, che i ricoveri psichiatrici per pensieri suicidari nei reparti pediatrici sono aumentati nei quattro anni in questione del 297,8 per cento, mentre quelli per tentativi di suicidio hanno visto un incremento del 249,1 per cento. Nel 2023 Telefono amico Italia ha dichiarato di aver ricevuto oltre 7mila richieste di aiuto per gestire un pensiero suicida personale o di una persona vicina.

I dati Istat sui casi di persone che si sono tolte la vita sono inoltre in aumento, anche se non al ritmo individuato dallo studio sui pensieri e i tentativi suicidari. Nel 2021 (l’anno più recente con dati ufficiali) i suicidi sono stati 3.870, mentre nel 2020 sono stati 3.748. ù

Il suicidio, quindi, emerge come un problema serio e di cui è importante parlare, così come è importante normalizzare i discorsi intorno alla salute mentale

Perché parlarne

Il suicidio in Italia è stato per molto tempo un tabù, in gran parte per motivi religiosi dato che il cattolicesimo lo considera storicamente come un peccato. La stessa tutela della salute mentale è stata a lungo sottovalutata, con psicologi, psicoterapeuti e psichiatri che spesso in passato sono stati accostati soltanto alla “pazzia”. Invece è necessario parlare di questi argomenti, per far sì che la sofferenza psicologica sia normalizzata e ogni persona possa essere aiutata nelle proprie difficoltà.

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Lo conferma anche Chiara Davico, dirigente medico presso la neuropsichiatria infantile dell’ospedale Regina Margherita di Torino, ricercatrice dell’Università di Torino e responsabile del progetto Spes (Sostenere e prevenire esperienze di suicidalità): «In Italia c’è ancora un tabù grosso sul suicidio e sulla salute mentale, anche se di quest’ultima si sta parlando sempre di più. Un esempio sono le Olimpiadi – in cui giovani atleti e atlete hanno parlato esplicitamente delle loro difficoltà, a volte non ricevendo piena comprensione – ma c’è ancora ignoranza, nel senso che il grande pubblico ancora non sa come parlarne».

I giornali e i media in questo caso possono aiutare, «bisogna parlarne e farlo nel modo giusto», dice ancora la dottoressa Davico.

I rischi del parlarne male

Nel modo giusto perché più di 100 studi internazionali – si legge sulle linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per la prevenzione al suicidio sui media – hanno dimostrato che il modo in cui si parla di suicidio sui giornali ha un impatto sull’effetto imitativo dei casi di suicidio, sia in positivo che in negativo.

L’effetto negativo viene chiamato in letteratura effetto Werther, dal libro I dolori del giovane Werther. Il romanzo di Goethe raccontava le sofferenze e il suicidio del protagonista, Werther, e dopo la sua pubblicazione era stato registrato un aumento del numero di atti suicidari. Così, anche le notizie sui media possono avere l’effetto di amplificare i tentativi o i casi di suicidio, come spiega anche l’Oms: «Le persone vulnerabili hanno un rischio maggiore di incorrere in comportamenti imitativi dopo la copertura mediatica del suicidio […]. Il rischio è particolarmente pronunciato se la storia coinvolge il suicidio di una persona che aveva uno status sociale elevato».

Al contrario gli studi parlano anche di effetto Papageno. Nel Flauto magico di Mozart c’è un personaggio di nome Papageno, che decide di non togliersi la vita quando le persone a lui vicine gli ricordano che ci sono delle alternative. Allo stesso modo i media possono avere un impatto positivo avendo cura di usare alcuni accorgimenti e, per esempio, parlando di storie significative in senso positivo, di superamento delle difficoltà.

«I giornali possono aiutare sulla salute mentale e anche su suicidio, che è un fenomeno che ad esempio non ha un’unica causa – spiega Davico – C’è bisogno di parlarne per una questione educativa. Imparare ha un impatto anche su come le persone possono agire. Un altro effetto riguarda il fatto che quando siamo colpiti da un suicidio è un momento traumatico e parlarne anche sui media può essere utile a elaborare un evento così violento».

Cosa fare e cosa non fare

Per far fronte ai problemi rappresentati dall’effetto Werther, l’Oms pubblica da ormai tre edizioni le già citate linee guida per i media per la prevenzione al suicidio. Al loro interno sono contenuti una serie di «Dos» e «Don’ts», cose da fare e da non fare, con le relative spiegazioni.

Molto importante è «fornire informazioni accurate su dove e come cercare aiuto per pensieri suicidari e crisi suicidarie», unito alla consapevolezza che i giornalisti stessi possono essere condizionati nel momento in cui seguono una storia di suicidio. Una particolare attenzione è inoltre da porre nel momento in cui si parla di una persona famosa che si toglie la vita, perché può avere una eco maggiore e scatenare un maggiore effetto imitativo.

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I media dovrebbero poi educare il pubblico con informazioni sul suicidio e sulla prevenzione al suicidio basate su elementi accurati, oltre a raccontare storie sul come affrontare momenti di stress e pensieri suicidari e sull’importanza del chiedere aiuto. Bisognerebbe infine anche avere cura quando si intervistano persone che hanno fatto esperienza del suicidio attraverso altri vicini a loro.

Fondamentale è sapere però anche le cose da non fare. Non bisogna per esempio usare un linguaggio sensazionalistico nei titoli, descrivere il metodo utilizzato – che potrebbe essere purtroppo imitato da chi già ha pensieri suicidari – o riportare i dettagli di un biglietto lasciato dopo l’atto. È importante non esagerare nel semplificare le ragioni del gesto o parlare di un singolo fattore che ha spinto la persona – il suicidio non è riconducibile a un’unica causa – e non usare foto, video o audio riconducibili all’atto suicidario.

Non si devono usare toni o contenuti sensazionalistici o che romanticizzino o normalizzino il suicidio o ancora che lo presentino come «una percorribile soluzione ai problemi». Meglio, poi, non posizionare le storie legate al suicidio come notizie principali o trattarle ripetutamente in modo eccessivo.

All’interno dei media italiani la situazione è ancora problematica e lo rivela uno studio pubblicato nel 2023 che prende in considerazione storie raccontate sui tre principali quotidiani nazionali tra giugno 2019 e maggio 2020. Spiega ancora la dottoressa Davico: «Si utilizzano ancora tante delle cose che non dovrebbero essere fatte, per esempio una narrazione romanzata o l’uso di dettagli. Spesso mancano ancora le informazioni che aiutano o la spiegazione del fatto che il suicidio è un fenomeno complesso».

Ha l’obiettivo di rispondere a queste necessità il sito papageno.news, un progetto collaborativo tra l’Università degli studi di Torino e il master in giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino. Sul sito si possono trovare risorse per documentarsi sulla prevenzione al suicidio e spunti per un comportamento positivo. Il progetto Papageno ha inoltre acquisito le linee guida dell’Oms, in alcuni casi integrandole per rispondere alle necessità italiane. Per esempio, si pone l’attenzione sul «non enfatizzare il problema del suicidio utilizzando descrittori come “epidemico” o “alle stelle”».

Inoltre si consiglia di descrivere il gesto in un modo attento alla sensibilità dei famigliari, spiegare quali possono essere i campanelli d’allarme. Risulta utile parlare del suicidio nella maniera più oggettiva possibile utilizzando i fatti, per contrastare «la percezione che il suicidio sia connesso all’eroismo, all’onore o alla lealtà a un individuo o un gruppo». Infine, se possibile, è anche positivo raccontare storie di speranza, cura e guarigione che possono ridurre il rischio di contagio.

Nell’informazione italiana ci sono ancora molti passi da fare, ma essere consapevoli di come si può contribuire ed essere un fattore positivo per contenere un problema come quello del suicidio è fondamentale.


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