Sassari. Tosca di Giacomo Puccini è uno di quei titoli, pochi a dirla tutta (un altro è, per capirci, La traviata di Giuseppe Verdi, insieme a Carmen di Bizet e La Bohème ancora di Puccini), che stanno in vetta a una ideale classifica di gradimento dei melomani sassaresi, che a teatro, prima al Verdi e da poco più di una decina di anni al Comunale, accorrono sulla fiducia quando l’opera proposta appartiene a questa lista. Un amore verso il capolavoro pucciniano che ha le sue radici addirittura nella prima rappresentazione in città nel 1902, ad appena due anni dall’esordio al Costanzi di Roma. È insomma scontato che per Tosca ci sia il tutto esaurito o quasi. E così è stato venerdì scorso alla prima della tradizionale stagione lirica autunnale dell’Ente Concerti “Marialisa de Carolis”. Le due anteprime tra giugno e luglio, il riuscito Falso tradimento di Tutino in teatro e l’assai meno convincente Otello di Verdi in piazza d’Italia, ne erano un’anticipazione.
E Tosca non ha tradito le attese. L’impianto più che tradizionale dell’allestimento, la Roma papalina dell’anno 1800 della chiesa di Sant’Andrea, di Palazzo Farnese e di Castel Sant’Angelo, è stato senza dubbio fondamentale per il gradimento del pubblico. A questo aspetto va aggiunta la buona performance del cast, con alcune punte di eccellenza, come il soprano Marta Mari nel ruolo di Tosca e il baritono Marco Caria in quello di Scarpia, a cui va aggiunto l’Angelotti del basso Tiziano Rosati.
Lo diciamo senza tanti giri. Non siamo mai stati fan pucciniani, del quale non abbiamo mai gradito lo stile né l’irritante ruffianeria musicale. Al compositore lucchese (quest’anno cade il centenario della morte), e complessivamente alla musica italiana del periodo a cavallo tra 1800 e 1900, imputiamo soprattutto una eccessiva lentezza nel recepimento delle istanze artistiche che invece attraversavano con vigore il resto d’Europa, anche approdando con un percorso innovativo al continente americano. Una sorta di pigrizia tutta italica di cui subiremo le conseguenze negative nei decenni successivi, anche nella formazione accademica. Mentre altrove si imponevano Richard Strauss, Debussy, Ravel, Stravinsky e poi Gershwin e il jazz, Prokofiev e Shostakovic (ma la lista sarebbe lunga), in Italia si rimaneva fossilizzati sul genere lirico che ormai esprimeva gli ultimi momenti di gloria. Con Puccini l’opera monopolizzava ancora il panorama musicale nazionale ma al contempo arrivò a esaurimento. Qualcosa di diverso in realtà esisteva, purtroppo rimasto a lungo sottotraccia. Solo ora stiamo riscoprendo, con colpevole ritardo, la grandezza di Ferruccio Busoni (anche lui scomparso un secolo fa) o di Ottorino Respighi (che non è unicamente il pur pregevole compositore di due capolavori come I pini di Roma o Le fontane di Roma, che tanto piacevano a Leonard Bernstein).
Rimane però il fatto che Tosca è Tosca e il pubblico continua, giustamente, a gradirla. Tratta dal dramma teatrale “La Tosca” di Victorien Sardou, la vicenda è nota e costituisce uno degli esempi di opera in cui i protagonisti muoiono davvero tutti (stavolta non è un modo di dire). L’allestimento della Fondazione Teatro Carlo Coccia di Novara portato al Comunale di Sassari restituisce con accuratezza le ambientazioni previste nel libretto di Giuseppe Giacosa (giornalista e drammaturgo, fondatore nel 1901 del supplemento letterario del Corriere della Sera “La lettura”) e Luigi Illica (grande librettista, autore con Giacosa, oltre a Tosca, dei testi delle pucciniane La Bohème e Madama Butterfly, mentre, da solo, di Andrea Chenier di Giordano). Un plauso quindi al regista Renato Bonajuto e allo scenografo Danilo Coppola per la ricostruzione della Roma del 1800, in una Europa attraversata dalla modernità postrivoluzionaria napoleonica. Qualche perplessità invece, almeno iniziale, per la scelta di arricchire oltremisura le pareti prima della chiesa di Sant’Andrea e poi dello studio di Scarpia a Palazzo Farnese con i quadri di arte sacra di Giovanni Gasparro, pittore contemporaneo piuttosto controverso, a cominciare dal contestato dipinto del 2020 dedicato alla presunta uccisione da parte di ebrei del piccolo Simonino nel XV secolo, omicidio che lo stesso Vaticano ha più volte qualificato come falso storico. Gasparro, alfiere di un cattolicesimo tradizionale preconciliare (è sufficiente dare una lettura alle interviste facilmente rintracciabili sul web), da alcuni anni è così al centro di polemiche. Ma proprio la presenza delle opere – la mano dell’artista c’è, va detto – del pittore pugliese è servita, in fin dei conti, a mettere in risalto l’indole retrograda del Barone Scarpia. A completare la riuscita fedeltà al libretto i bei costumi di Artemio Cabassi, prestigioso nome del mondo teatrale e lirico.
Sul piano musicale va posta in evidenza, innanzitutto, la Floria Tosca di Marta Mari, giovane soprano dalla voce potente ed equilibrata (a Sassari già nel 2017 in Berta nel Barbiere di Siviglia), che ha offerto una vibrante interpretazione soprattutto nelle note medie e più scure. Bene in “Vissi d’arte” (uno dei due momenti dell’intera opera salutati da applausi a scena aperta), ha convinto soprattutto nel secondo atto e poi nel drammatico finale. Unico suo limite risultava la spesso difficile comprensione delle parole. Benissimo anche Marco Caria (stavolta senza la barba con la quale ci eravamo abituati a vederlo) nel ruolo del Barone Scarpia. Di casa al Comunale di Sassari dopo il felice esordio di due anni fa come Germont padre in Traviata (e ci accorgemmo subito delle sue qualità) e poi ritornato nel 2023 in Pagliacci in piazza d’Italia e in Nabucco e in questo 2024 già Jago in Otello, il baritono oristanese è una bella realtà della lirica isolana. Di Scarpia ha proposto una intensa interpretazione anche sul piano recitativo, seppure ancora appaiano evidenti i margini di miglioramento sul palcoscenico. Un po’ più di cattiveria non sarebbe guastata: è sembrato non voler calcare la mano sull’aspetto della spietatezza del barone Scarpia, capo della polizia papalina e perfido ingannatore, oltre che ricattatore sessuale. Deludente invece il tenore georgiano Otar Jorjikia (reduce però da problemi di salute, tanto che nei giorni precedenti aveva cantato alle prove con la mascherina), apparso impacciato per tutta la rappresentazione e che è mancato proprio nel momento più importante di “E lucevan le stelle”, cantata con poco pathos seppure correttamente. È così arrivato sì l’applauso scontato, ma è mancata la consueta (almeno a Sassari) richiesta di bis.
Bene il resto del cast. Su tutti il basso Tiziano Rosati (Cesare Angelotti), anche lui presenza ormai abituale a Sassari dopo l’esordio lo scorso anno nel Barbiere rossiniano in un ottimo Don Basilio. Efficace, anche sul piano recitativo, Andrea Porta (basso) nel ruolo del Sagrestano. E poi Nicolas Resinelli (Spoletta), Michael Zeni (Sciarrone – Un carceriere). Il pastorello è differente per le tre recite, con altrettante ragazzine: Viola Nurchis, Laura Chili e Aurora Caddeo.
Corretta e senza sbavature la direzione dell’Orchestra dell’Ente da parte di Gianluca Martinenghi, con i tre accordi (quelli che aprono l’opera, per intenderci), che nello svolgimento dell’opera richiamavano la presenza inquietante di Scarpia, ben sottolineati seguendo la partitura. Stesso positivo discorso per il Coro dell’Ente preparato da Francesca Tosi e, nel Te Deum del primo atto, per il Coro delle Voci Bianche del de Carolis guidato da Salvatore Rizzu. Le luci erano di Tony Grandi, assistente alla regia Siria Colella. Da segnalare che nelle scene in chiesa alcuni oggetti sacri e devozionali erano originali della vicina chiesa del Carmelo.
Alla fine, cinque minuti di applausi, il minimo sindacale, e spettatori soddisfatti.
Replica ieri (domenica) e domani (martedì 5 novembre) alle 20,30.
Luca Foddai
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