Non è la prima volta, né sarà l’ultima che un Governo che elabora la legge di Bilancio sia destinatario di uno sciopero generale. Quest’anno gliel’hanno promesso CGIL e UIL, anticipando la decisione rispetto ad un confronto giunto fuori tempo massimo, dato che il provvedimento è già alla discussione del Parlamento. Le due Confederazioni ritengono che la proposta di Bilancio è un bicchiere vuoto; la CISL che sia mezzo pieno.
Tutte e tre, a sentire e leggere ciò che intendono proporre al confronto con il Governo hanno dossier gonfi di richieste. L’impressione è che siano di difficile accoglimento. Gli spazi di cambiamento sono stretti tra le condizioni poste da Bruxelles e l’alto livello del debito pubblico (leggere il commento di Benetti).
Senza entrare nel merito delle volontà delle Confederazioni circa la risposta da dare al Governo, che ovviamente appaiono immodificabili, a voler fare una selezione delle richieste sindacali tre appaiono largamente comuni: fisco, sanità e pensioni. Temi fortemente intrecciati. Anzi, non potendo indebitarci di più, il primo è preponderante.
Non si può più andare avanti così. La questione fiscale è la madre di tutte le riforme che sono necessarie a questo Paese. Senza soldi, né la sanità pubblica, né il sistema pensionistico, né la formazione a tutti i livelli, né le grandi infrastrutture potranno essere realizzate. A furia di esenzioni, di decontribuzioni, di evasioni note, o in giudicato o non più riscuotibili abbiamo il record europeo di diseguaglianza tra i percettori di reddito. Così il Bilancio dello Stato ha entrate per oltre l’80% derivanti dall’IRPEF dei lavoratori dipendenti e dai pensionati. Più in generale, su 42 milioni di dichiaranti, 32 milioni pagano il 24% dell’IRPEF e i restanti 10 milioni che dichiarano più di 35.000 euro, il restante 76%. L’immagine che emerge è un’Italia fiscale fatta di poverissimi e ricchissimi, mentre il peso reale delle attività pubbliche è soltanto sulle spalle del ceto medio. E’ una situazione che grida vendetta.
Vendicatore cercasi. E’ un’illusione pensare che questo Governo si dia da fare per cambiare il sistema fiscale in modo “serio”. Il fallimento del concordato fiscale è l’ennesima dimostrazione che l’evasione non si combatte allisciando il pelo del furbetto o dell’imbroglione. Ci vorrebbe ben altro, ma il mantra della Meloni è “meno tasse” e indulgenza verso ciò che favorisce l’evasione.
Bisogna essere altrettanto convinti che si rischia di pestare l’acqua nel mortaio se dovessimo contare a breve sulla capacità dei partiti di tirare fuori dal cilindro una rivoluzione fiscale, all’altezza della situazione in cui è la ricchezza di questo Paese. Hanno tutti, maggioranza e opposizione, la testa ancora nel Novecento. Quando l’industrializzazione matura era il blocco fondante della creazione del benessere economico e del welfare state. Quel tempo è passato, finanziarizzazione dell’economia e creazione di nuovi lavori, a seguito dell’avvento dell’economia circolare e della conoscenza tecnologica, hanno provocato uno spostamento significativo della distribuzione della ricchezza sia tra le persone che fra i settori e nei territori.
Il sindacalismo confederale in passato ha avuto la capacità di formulare proposte complessive e innovative sul piano fiscale. Gli aggiustamenti come la riduzione del cuneo fiscale, di per sé apprezzabile, non risolve nessun problema strutturale del sistema vigente.
Ci vuole un progetto di nuovo conio. A partire dal ripristino del dettato costituzionale sulla progressività del prelievo, attualmente svuotato di significato, perché tutti si sono concentrati unicamente sulle aliquote e gli scaglioni dell’IRPEF. Un gioco perverso, che non si è rivelato neanche a somma zero, dato che contestualmente si elaboravano vie di fuga dalla tassazione dei redditi, per questi o quei settori e categorie e si lasciavano altre fonti di reddito lievitare senza limitazioni.
Nel puntare a dare nuova fisionomia al sistema fiscale, va tenuta larga la maglia delle alleanze sociali. Sarebbe un grave errore mettere i lavoratori dipendenti contro gli autonomi e i professionisti, i vecchi mestieri contro i nuovi. Semmai sarebbe una buona novità se si cercasse di creare un blocco di interessi come produttori contro ogni forma di rendita, di elusione e di evasione. Quest’obiettivo è cruciale e può essere capace di saldare convergenze se prevalesse il convincimento che alcuni bisogni essenziali per la vita quotidiana di chi lavora alle dipendenze o in proprio e di tutti i pensionati debbano essere tutelati (salute, specie per la prevenzione; formazione, in tutti i gradi e per gli adulti, anche continua; manutenzione della casa e dei mezzi di mobilità; assistenza ai bambini e agli anziani) e quindi la loro spesa esentata se documentata (favorendo il conflitto di interesse e di conseguenza una riduzione dell’area dell’evasione).
Partendo da questa visione, il ridisegno dell’IRPEF acquista un vero significato di progressività che deve valere per tutti. E coerentemente a questa prospettiva, sarà più facile convincere che la tassazione dei patrimoni mobiliari ed immobiliari e delle eredità debba avere una nuova normativa. Anche questa deve essere ancorata al criterio della progressività. A questo scopo, una volta per tutte, occorrerà eliminare i paradisi fiscali ancora esistenti in Europa, ammodernare il sistema catastale italiano, riclassificare i titoli finanziari, ora che le criptovalute stanno irrompendo nel panorama speculativo mondiale, avere un sistema di garanzie per il cittadino contribuente che non si pieghi alle distorsioni della lungaggine e dei formalismi.
Non accontentarsi di rigettare le proposte del Governo o di spuntare accorgimenti che non mutano la sostanza del problema è una scelta innanzitutto di autonomia. Questa non basta evocarla, né portarla sul confine della fattibilità ma senza trasformarla in una conquista. E chissà che, così facendo, fra non molto, potremo avere la sorpresa che una nuova fase dell’unità di CGIL, CISL e UIL dia un contributo di speranza agli italiani di buona volontà.
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