L’idrogeno Green è nell’occhio del ciclone. Galeotto, questa volta, è uno studio dell’università americana Harvard, che accende i riflettori sul reale potenziale della produzione su larga scala di molecole Green attraverso elettricità da fonti rinnovabili. L’analisi mette in luce gli ostacoli alla diffusione di massa di questo vettore, facendo crescere lo scetticismo dell’opinione pubblica nei suoi confronti. L’ostacolo principale che frena la definitiva affermazione dell’idrogeno prodotto da fonti rinnovabili è la spesa.
«Il costo dell’idrogeno dipende molto da quello dell’energia elettrica, dobbiamo fare una riflessione rispetto al modello di business. Inoltre, è importante capire con che cosa vogliamo produrre questo vettore energetico», dice Andrea Bombardi, Executive Vice President per il Global Market Development di RINA e delegato in Hydrogen Europe e membro dei consigli direttivi di H2IT e AIN. Con un costo compreso tra i 500 e i 1,250 dollari per tonnellata di CO2 evitata, l’idrogeno si colloca ben al di sopra della media di prezzo degli altri vettori. E i dati dicono che di questo passo il suo utilizzo prevalente in futuro riguarderà settori di nicchia hard-to-abate, come il trasporto pesante e la produzione di ammoniaca. Tuttavia, non si esclude che l’idrogeno verde un giorno possa diventare di largo utilizzo. Per realizzare questo obiettivo, però, servirà uno sforzo importante in termini di politiche nazionali, per stimolare la domanda e attrarre investimenti in ricerca e sviluppo che riducano i costi di stoccaggio e distribuzione, al fine di rendere la produzione competitiva.
L’idrogeno è considerato uno dei vettori della transizione più costosi…
«Il costo dell’idrogeno Green o low carbon è legato a molti aspetti. Tutti i prodotti petrolchimici vengono realizzati in questo modo, con emissioni di CO2. Il costo è legato alla disponibilità dell’acqua, al miglioramento delle tecnologie di elettrolisi, che può portare efficienza. Bisogna pensare a cosa fare dell’ossigeno: un bene che può essere utilizzato in diversi settori. Per quanto riguarda la disponibilità, invece, dobbiamo capire con cosa vogliamo produrre l’idrogeno. Oggi le rinnovabili occupano il 32,6% dell’energia consumata in Italia, ma dobbiamo trovare fonti più stabili che permettano l’utilizzo a lungo termine. Non dimentichiamoci che esiste anche la mobilità elettrica alimentata a idrogeno, che trasforma l’energia chimica in elettrica. Ogni settore per sua natura è disposto a pagare l’energia in maniera differente».
In attesa che i costi di produzione scendano, l’Italia può giocare un ruolo centrale nella distribuzione di idrogeno grazie alla sua posizione. Infatti, il nostro Paese può puntare a diventare un hub per l’importazione di H2 all’interno dell’UE. Per raggiungere questo obiettivo servono però investimenti e infrastrutture…
«Sì, in alcuni casi si potrebbe utilizzare la rete del gas per il trasporto. Per la parte importante le reti sono già predisposte per il transito di H2; negli scorsi mesi, per esempio, abbiamo attestato l’idoneità della rete di 2i Rete Gas».
Quali sono le altre variabili di cui tenere conto?
«Dobbiamo tenere conto di quanto gas ci serve rispetto all’idrogeno, perché non possiamo aumentare la pressione di trasmissione. Si pone una tematica sul ruolo del gas, ma anche sull’Italia come hub e punto di raccordo dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo e che saranno potenziali produttori. La tecnologia sarà un elemento fondante per il trasporto, bisogna quindi alimentare la ricerca, l’innovazione. Siamo in una fase di crescita, anche l’Italia sta ragionando su una strategia nazionale e vuole dare una linea guida definendo priorità, investimenti, incentivi e riflettendo su come completare il quadro regolatorio. L’idrogeno dovrà diventare una commodity affinché possa sviluppare il suo pieno potenziale».
Tra i settori che seguite, una menzione particolare la meritano quelli hard-to-abate. Quali sono le iniziative più diffuse per rispettare i target europei?
«Oggi si parla molto della cattura della CO2, che può essere una misura di transizione net zero, non di zero emission. Una misura che permetterebbe di continuare a usare il gas e cominciare a ragionare su miscele idrogeno-gas naturale. Ci sono tante soluzioni complementari diverse: digitalizzazione, ottimizzazione dei processi, transizione a energia con una minore impronta carbonica. Nel caso dell’idrogeno, c’è un altro utilizzo, come feedstock (materia prima per una macchina o un processo industriale, ndr) delle raffinerie. L’obiettivo è sostituire l’attuale idrogeno con uno che non emette CO2».
Negli scorsi mesi avete stretto una partnership con ENI e Fincantieri. Le competenze maturate vi aiuteranno a supportare lo shipping nel suo percorso verso una riduzione dell’impronta carbonica?
«Parliamo di una partnership che continua il lavoro che già facciamo con loro. La transizione energetica va affrontata in maniera sistemica, quindi abbiamo deciso di unire le forze per guardare al problema da diversi punti di vista. Si tratta di un lavoro in divenire. Ogni settore, comunque, ha una o più soluzioni a seconda che sia B2B o B2C. L’obiettivo è quello di utilizzare il biocombustibile in un ambito difficile da decarbonizzare come quello marittimo».
Quanti investimenti servirebbero per realizzare questo passaggio?
«Servono trilioni di dollari. La transizione ha bisogno di infrastrutture, regolamenti, norme, disponibilità di risorse e tanto altro. La variabile tempo è un fattore molto importante. L’elemento chiave, in tutto questo, è l’innovazione tecnologica che definirà anche gli investimenti in misura incrementale rispetto allo sviluppo delle tecnologie stesse».
In base alla vostra esperienza di contatto con molti settori industriali, quale comparto è più avanti in questo percorso?
«I settori B2C sentono maggiormente l’esigenza di ragionare in termini di sostenibilità per posizionare il prodotto. Abbiamo lavorato molto con la filiera alimentare: chi vuole garantire che il prodotto sia sostenibile sta pensando a forni elettrici oppure a biogas o idrogeno. Sarà importante vedere come i consumatori influiranno sulle scelte. Naturalmente deve essere il Mercato a dover scegliere la sostenibilità. In alcuni settori si sente molto forte questo orientamento, in altri meno. Gli hard-to-abate, come già detto, hanno più strada da fare ma anche un grande ventaglio di possibilità e opportunità: efficienza, digitalizzazione, cattura della CO2, che permettono di tracciare una roadmap e misurare un decremento delle emissioni in funzione della produzione».
I target di decarbonizzazione europei al 2030 saranno raggiunti, di questo passo?
«Bisogna ragionare con pragmatismo su come creare una roadmap, altrimenti rischiamo di dare obiettivi ma non monitoriamo cosa succede anno dopo anno. Si rischia di arrivare al 2029 pensando di fare tutto in un anno. L’altro tema importante è la regionalizzazione dell’energia: ogni Paese ha risorse diverse in base a posizione, antropizzazione e non tutti possono adottare le stesse leve per raggiungere un obiettivo. Bisogna lasciare una parte di discrezionalità di scelta a ciascuno. È importante capire quanto determinate tecnologie siano pronte per i Mercati. Neutralità tecnologica, infatti, vuol dire proprio partire dallo stesso punto e analizzare la traiettoria delle diverse innovazioni. Un ruolo importante in questo campo lo avrà anche l’open innovation; in questo senso un esempio arriva da Hydra, piattaforma aperta che abbiamo sviluppato per permettere al settore siderurgico di disporre di acciaio completamente decarbonizzato».
Investire sulla formazione dei lavoratori è un tassello cruciale: a che punto siamo in Italia nello sviluppo delle competenze Green?
«La transizione energetica richiederà un numero significativo di professionisti adeguati alle nuove competenze, soprattutto nella transizione energetica. Secondo alcune stime dell’International Renewable Energy Agency (IRENA), entro il 2030 il settore delle energie rinnovabili potrebbe creare oltre 38 milioni di posti di lavoro nel mondo. In Italia, la Fondazione Symbola ha stimato che potrebbero essere necessari oltre 500mila nuovi posti entro il 2030 per sostenere la transizione ecologica. Il nostro Paese ha fatto progressi importanti, ma ci sono ancora lacune significative in termini di competenze Green. Siamo in una posizione favorevole come hub delle nuove energie, ma c’è una carenza di lavoratori qualificati in settori come la gestione delle risorse naturali, la decarbonizzazione e l’efficienza energetica degli edifici. La mancanza di personale specializzato è uno dei maggiori ostacoli per accelerare la transizione. Per migliorare la situazione è essenziale implementare programmi di formazione e riqualificazione; in questo senso, le università e gli istituti tecnici dovrebbero integrare corsi specifici. Inoltre, per colmare il gap di competenze, si dovrebbero implementare le collaborazioni tra imprese e istituzioni educative». ©
Articolo tratto dal numero del 15 novembre 2024 de il Bollettino. Abbonati!
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