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la Cop29 di Baku parte in salita #finsubito prestito immediato


La Conferenza appena iniziata ha già due problemi: il disaccordo sulle regole per finanziare il clima e un nuovo nemico americano che vuole fare uscire gli Usa dall’accordo di Parigi

La Cop29 iniziata lunedì 11 novembre a Baku, in Azerbaijan, ha due grandi problemi. Il primo sapeva di averlo: il vertice del 2024 era segnato da anni in calendario come quello per rinegoziare l’accordo base che regola la finanza per il clima.

Le incognite

Formalmente si identifica con uno di quei cacofonici acronimi diplomatici: Ncqg (New collective quantitative goal, nuovo obiettivo quantitativo collettivo), in pratica è la quota di risorse finanziarie che i paesi industrializzati si impegnano a mettere sul piatto nel prossimo decennio per attrezzare il resto del mondo, che si sta industrializzando ora, a combattere i cambiamenti climatici, adattandosi agli eventi estremi e costruendo uno sviluppo senza combustibili fossili.

Il risultato da cui sarà giudicata Cop29 sarà un numero, espresso in centinaia o migliaia di miliardi. Il sud globale, l’Africa, i Caraibi, le isole del Pacifico chiedono una cifra vicina al migliaio di dollari, per le democrazie del mondo ricco sono soldi difficili da mobilitare in un contesto di inflazione, budget ristretti e crisi politica.

Il secondo problema la Cop29 sperava proprio di non averlo: un nemico in più. Trump ha vinto le elezioni e ha cambiato il corso della politica del clima, di nuovo. Il transition team della nuova amministrazione ha il mandato di preparare l’uscita del paese dall’accordo di Parigi, sarebbe il quarto cambio di idea sul clima in dieci anni: firmatari nel 2015, usciti con Trump nel 2017, uscita completata nel 2020, rientrati con Biden nel 2021, e ora fuori di nuovo.

Nessun paese al mondo, democratico o autocratico, ha trattato il clima in questo modo. A metterci la faccia ieri è stato l’inviato per il clima John Podesta, storico uomo dei democratici. Scelto da Biden per sostituire John Kerry, Podesta si è trovato a gestire la fine di un’epoca. Non poteva essere più contrito quando ha detto: «Siamo consapevoli di avervi deluso. Il passaggio al disimpegno è difficile da tollerare, ma Trump ha vinto le elezioni, ha detto che usciremo dall’accordo di Parigi e gli dobbiamo credere, perché siamo in una democrazia. Però i fatti rimangono i fatti e la scienza rimane la scienza». È stato un mesto congedo.

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I due temi, la finanza e Stati Uniti, si toccano in un nuovo rapporto della International Chamber of Commerce: nell’ultimo decennio gli eventi estremi hanno avuto un costo di 2mila miliardi di dollari, 451 miliardi solo negli ultimi due anni. Nessun paese ha dovuto pagare un conto alto quanto gli USA, 935 miliardi in dieci anni.

È un concetto ribadito anche da Podesta: gli USA soffrono per la crisi, ha citato i recenti uragani Helene e Milton, e soffriranno ancora. L’uscita di questo studio serve a ribadire quanto la questione climatica sia una questione finanziaria: da un lato quanto costa il cambiamento climatico, dall’altro come finanziare la transizione.

Obiettivi indeboliti

Il negoziato vede in questo momento i paesi in disaccordo su tutto: non solo la cifra da mettere insieme, ma anche chi deve contribuire, chi può ricevere questi aiuti, a che condizioni, quante risorse saranno prestiti da rimborsare e quanti contributi a fondo perduto. Come spiega Eleonora Cogo, analista del think tank Ecco: «I paesi più poveri vivono una doppia crisi, clima e debito. Per un paese africano trovare i fondi per affrontare la crisi climatica costa fino a otto volte più che per un paese industrializzato».

È di questo tipo di ingiustizie che si discute a Baku. La cifra in vigore fino a questa Cop è quella di 100 miliardi di dollari l’anno, fu stabilita in modo arbitrario dai paesi industrializzati alla Cop di Copenaghen, nel 2009, aveva il 2025 come data di scadenza, per questo se ne parla ora. Nel frattempo la misurazione economica dei cambiamenti climatici ha fatto progressi enormi, ora abbiamo dati molto più esatti su costi e danni. L’Onu stima che servano 2400 miliardi in questa fase: 1400 verrano dai budget Dei singoli paesi e da investimenti privati, rimane un buco di 1000 miliardi e colmarlo è il compito della Cop29.

La posizione negoziale di diversi blocchi, tra cui l’Unione europea, è che questa quota potrà essere raggiunta solo allargando la platea di donatori, che al momento non include paesi come Cina, Arabia Saudita, Emirati Arabi o Qatar, formalmente considerati dalla convenzione Onu sul clima ancora paesi in via di sviluppo. Quella convenzione è stata firmata nel 1992, il mondo è piuttosto cambiato da allora, l’Unione europea chiede che ne venga preso atto. Le defezioni di tanti leader di peso – Macron, Scholz, von der Leyen, indebolisce questa posizione, e anche la Cop nella sua interezza.

Segnale di quanto sia difficile la situazione: la plenaria di apertura si è incagliata per ore, perché la Cina ha provato ad approfittare della debolezza di USA e Unione europea per portare dentro la Cop un tema che non appartiene a questo contesto, una condanna ai dazi come quelli a cui stanno pensando sia Trump che la Commissione europea. È un negoziato complesso, insomma. Come sempre, quando bisogna passare dai principi di solidarietà ai bonifici.

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