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Se il taglio del cuneo fiscale non è una buona notizia #finsubito prestito immediato


E se il taglio del cuneo fiscale fosse in realtà una cattiva notizia?

La bozza della legge di stabilità per il 2025 prevede la conferma strutturale dell’esonero contributivo per i lavoratori con redditi fino a 40mila euro, innalzando quindi la soglia precedente dei 35mila euro. Con delle novità: fino a 20mila euro di reddito è previsto un bonus variabile, poi si passa a un meccanismo di detrazioni aggiuntive.

Una buona notizia, direte voi. Ma se la guardiamo da un altro punto di vista forse non è così.

La spesa annua per questa misura è di circa dieci miliardi di euro. Considerando che è stata introdotta nel 2022, nel 2025 la spesa complessiva sarà quindi di circa 40 miliardi di euro. In più, in questi anni sono stati introdotti altri tagli della quota contributiva a carico dei datori di lavoro per le assunzioni nel Mezzogiorno, di giovani e donne. Con una spesa aggiuntiva che nel 2022 era di 7,5 miliardi di euro.

Incuneati In Italia il peso del cuneo fiscale è del 45,9 per cento, uno dei più alti tra i paesi dei Paesi dell’Ocse. Nel 2022, per mitigare la perdita del potere d’acquisto dovuta all’aumento dell’inflazione, si decise quindi di «tagliarlo» per i redditi medio-bassi.

In pratica, una parte delle tasse dovute vengono usate per aumentare il netto in busta paga. Lo Stato sceglie di dare un sostegno ai salari bassi, rinunciando quindi a una parte di entrate e utilizzando risorse pubbliche.

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Ma può essere questo l’unico metodo per aumentare i bassi salari italiani?

I Ccnl non bastano Certo, come ha scritto Paolo Naticchioni su Lavoce.info, in Italia una politica di sostegno salariale è necessaria. Questo perché i salari sono stabiliti attraverso i contratti collettivi (per chi ce l’ha), che però non sono riusciti in questi anni a compensare gli aumenti dell’inflazione.

Solo pochi settori hanno ottenuto con la contrattazione aumenti salariali importanti. Ma il tempo medio di attesa per il rinnovo è aumentato nel 2023 da 20,5 a 32,2 mesi e circa il 50 per cento dei lavoratori ha un contratto scaduto. Persino nel settore pubblico, dove lo Stato potrebbe in teoria intervenire velocemente, la trattativa si è conclusa da poco, quando già l’inflazione è tornata a scendere.

L’Ocse tra l’altro ha confermato che in Italia si è registrato il calo dei salari reali più forte tra le principali economie, mentre i profitti delle imprese sono cresciuti. Uno studio di Mediobanca spiega che le imprese italiane nel 2023 hanno registrato un margine di redditività del 6,6 per cento (il migliore dal 2008), mentre il costo del lavoro tra il 2021 e il 2023 ha perso il 7,6 per cento del valore reale.

L’erba del vicino E negli altri Paesi? Qui arriva la soluzione alternativa al taglio del cuneo: il salario minimo.

In tutti i trenta Paesi Ocse che hanno un salario minimo legale, i governi o le parti sociali in questi anni di inflazione alta hanno alzato l’importo per per proteggere il potere d’acquisto dei salari più bassi. In alcuni casi, come in Francia, l’aumento del salario minimo è legato a meccanismi automatici di indicizzazione. Oppure, come accaduto in Germania e Spagna, sono intervenuti direttamente i governi.

Il salario minimo ha raggiunto nel 2024 un valore reale superiore a quello del 2019 in tutti i Paesi Ocse, con un aumento medio del 12,8 per cento, quindi più che compensando l’inflazione. In più, questo ha generato, una crescita dei livelli salariali superiori ma vicini al minimo, determinando un aumento a cascata dei redditi per un’ampia platea di lavoratori.

Insomma, aumentare il potere d’acquisto usando lo strumento del salario minimo è risultato molto più efficace e veloce per reagire all’inflazione, anziché farlo con i tempi lunghi della contrattazione collettiva che, soprattutto nei periodi di fiammata dell’inflazione, finiscono per non incidere (o incidere in ritardo) sul potere d’acquisto dei lavoratori.

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La domanda è: perché l’Italia non sceglie di integrare la contrattazione collettiva con un salario minimo ragionevole?

La maggioranza attuale sostiene la contrattazione collettiva in opposizione al salario minimo. Ma le due cose possono coesistere, come accade in Germania.

La proposta dei 9 euro minimi all’ora delle opposizioni, seppur discutibile, è stata affossata dal governo Meloni. E la discussione sull’argomento è scomparsa. Ma le riforme promesse da Palazzo Chigi come alternativa al salario minimo su rappresentanza, riduzione dei tempi di rinnovo dei contratti, contenimento dei contratti “pirata” e rispetto dei minimi retributivi nei Ccnl non sono ancora state realizzate, né sembrano essere più al centro del dibattito.

Chi paga? Naticchioni ricorda che c’è un’ampia letteratura (compreso il premio Nobel David Card) secondo cui aumenti ragionevoli del salario minimo non producono effetti negativi sulle imprese che pagano di più i lavoratori né le spingono a licenziare per tagliare i costi, ma anzi determinano impatti nulli o addirittura positivi sull’occupazione.

Scegliendo la strada del taglio del cuneo fiscale – oltre a non avere grandi effetti sul potere d’acquisto reale come abbiamo visto – si sceglie di usare risorse pubbliche. Il che è un problema per un Paese con un debito pubblico molto elevato come il nostro. Mentre nei Paesi con il salario minimo l’aggiustamento dei salari reali non ha avuto un impatto sul debito, in Italia è avvenuto e avverrà a carico delle risorse pubbliche, con un costo superiore ai 40 miliardi.

E questo rappresenta anche un ostacolo per intervenire su altre emergenze del Paese, visto che abbiamo obblighi di rientro importanti sui conti pubblici concordati con l’Europa e i margini di manovra della legge di bilancio – come sempre – sono risicati.

Circa un euro su tre nella legge di bilancio 2025 è destinato infatti al taglio del cuneo fiscale. Al contrario, nella scuola si prevede una riduzione del numero di docenti e nella sanità le assunzioni saranno rimandate al 2026, con ulteriori allungamenti delle liste di attesa.

Conclude Naticchioni: «Il taglio del cuneo fiscale … da molti osservatori celebrato come un segnale positivo, rappresenta in realtà una cattiva notizia, in quanto il governo si impegna in modo strutturale a sostenere i bassi salari con risorse pubbliche: si tolgono finanziamenti a istruzione, sanità, giustizia, forze dell’ordine e altro ancora, invece di introdurre le tanto auspicate, ma mai realizzate, riforme strutturali».

Tra l’altro, con il nuovo taglio del cuneo, a fronte di 2,4 milioni di beneficiari aggiuntivi, ci sono un milione e 115 mila persone che restano fuori in tutto o in parte rispetto al 2024.

Perché, appunto, la coperta delle risorse pubbliche è corta. E rinunciare al salario minimo costa caro.

Quindi è una buona o una cattiva notizia?

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