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Anche i fiumi vanno in concessione. «Così le acque non sono più libere» #finsubito prestito immediato


Anche i corsi d’acqua, così come le spiagge, sono interessati da un processo di assegnazione in concessione a soggetti privati. In Veneto le aree di diretta competenza del Demanio pubblico si stanno progressivamente riducendo, affidate dalla Regione ad associazioni di promozione sociale ed enti sportivi ricreativi. Se da una parte questi soggetti sono tenuti a occuparsi della vigilanza e della tutela ambientale, dall’altra ne deriva che la fruizione di ampi tratti dei fiumi veneti non è più completamente libera: questo vale in particolare per l’attività della pesca sportiva, per la quale – tra l’altro – è necessario diventare soci degli enti affidatari e pagare una quota.

Il processo, iniziato da tempo, ha registrato un’accelerazione con la delibera 796 del giugno 2023, che ha approvato il bando per il rilascio delle concessioni per l’esercizio della pesca dilettantistica dei corpi idrici regionali. Le concessioni sono state poi rilasciate nel mese di dicembre 2023: tra queste c’è, ad esempio, quella che amplia le aree di competenza della Aspd Bacino Acque Fiume Brenta nelle province di Vicenza e Padova, rinnovando il contratto fino al 2034. L’assegnazione, si legge nel disciplinare, ha lo scopo di «favorire una migliore gestione della fauna ittica autoctona, di incrementare l’attività di vigilanza ittica, di tutelare gli ambienti acquatici». La rete controllata è vastissima e rientra tutta nella zona “A”, ovvero quella che comprende le acque più pregiate.

Altre licenze si stanno espandendo un po’ ovunque, pianura inclusa, come dimostrato dal moltiplicarsi dei segnali che indicano le zone soggette a concessione: recentemente, ad esempio, lungo il Muson Vecchio a Zeminiana di Massanzago. Ad oggi non esistono dati numerici che quantifichino la percentuale dei corsi d’acqua appaltati, ma online si trovano le mappe, divise per province. È la Carta ittica regionale del 2022 a individuare, all’interno dei bacini idrografici, le zone omogenee che possono essere affidate. Lo stesso documento stabilisce che per le acque di zona A, «in considerazione della complessità gestionale, della necessità di una costante vigilanza, nonché della presenza di popolamenti ittici alieuticamente pregiati, è possibile l’affidamento in concessione della totalità (100%) delle acque presenti».

La Regione, in sostanza, ritiene che appaltare la gestione della fauna ittica a enti specializzati sia la soluzione più efficace e meno onerosa, nonostante gli interventi sul territorio rimangano comunque perlopiù a carico di volontari. Questo approccio, però, trova l’opposizione di chi vorrebbe che i fiumi restassero un bene pubblico: «Con una progressione che sembra inesorabile, assistiamo anno dopo anno alla concessione di nuovi tratti dei nostri fiumi più belli e meno contaminati ad associazioni di diritto privato – fa presente Giacomo Cogo, pescatore sportivo che ha fatto appello direttamente alla Regione -. Le concessioni di pesca sportiva sembrano avere ottenuto tutto l’ottenibile, finendo per confinare l’una con l’altra, senza soluzione di continuità, fin dalle sorgenti».

Il problema, secondo Cogo, è che «tali concessioni, a volte, disattendono completamente gli accordi di gestione del patrimonio pubblico affidato loro», tanto che le attività finirebbero per avere effetti dannosi: «Anzitutto la biodiversità: da anni, nei tratti in concessione si vedono solo trote domestiche di immissione, incapaci di riprodursi, e per questo gli stock sono sempre dipendenti dal continuo intervento umano, come in un laghetto da pesca. Ovunque ci sia stata gestione della fauna ittica operata da privati – prosegue Cogo – sono state immesse indiscriminatamente specie invasive per decenni, come le fario atlantiche in Brenta, il luccio nordico nei laghi prealpini di Cadore e Corlo (che hanno soppiantato il già fiaccato luccio italico) e la marmorata slovena, diversa dalla nostra, inadatta ai nostri ambienti e immessa tramite progetti europei in un po’ tutti i fiumi con concessioni in zona A, a prescindere dal fatto che storicamente la specie fosse presente o meno».

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Anche un progetto come Life Siliffe, sostiene Cogo, «è sbagliato: in un tratto di 100 metri tra Morgano e Casacorba sono state legate delle fascine per nulla somiglianti a qualcosa di esistente in natura, allo scopo di favorire l’insediamento di trote marmorate e temoli, qui liberati e imprigionati. Notare che nessuno dei due pesci si riproduce in fascine di legno. Oggi, dei pesci immessi non c’è più traccia».

In generale, conclude Cogo, «tutti i corsi d’acqua gestiti privatamente da anni non hanno registrato incrementi demografici di biomassa, né della presenza di specie protette, nei tratti acquisiti a bando a questo scopo, a meno che non siano stati decretati divieti di pesca o prelievo nullo. Anche le immissioni effettuate dalle regioni in acque pubbliche negli anni passati non hanno migliorato alcunché, se non peggiorato la situazione perché le specie immesse erano aliene (oppure autoctone, ma non in grado di ripristinare popolazioni stabili perché non supportate da progettualità adeguate e protratte nel tempo). Gli unici bioindicatori positivi si trovano in zone di divieto e dimenticate, proprio perché libere, quindi abbandonate dalla gestione privata e pubblica: dove la gente non mette mano, la natura ce la fa». Inoltre, «chi va a pescare nelle acque libere non si aspetta di portare a casa borse piene di pesci: ha un impatto minore e meglio distribuito nel territorio».

Non è solo un tema di tutela ambientale: il pescatore sportivo, scrive Cogo, «è un cittadino che desidera riconnettersi con gli aspetti naturali del suo territorio e per farlo ha trovato come mezzo la pace meditativa della lenza. Non sottrae nulla al territorio, non pesca per prendere, ma per perdersi nel tentativo. Abbiamo l’impressione – dice – che stiano venendo meno le ragioni per continuare a contribuire ad una licenza di pesca sportiva governativa».

È chiaro che l’acquisizione di molti tratti da parte di soggetti privati va in direzione opposta: la Dgr 796/2023 indica che «l’ottenimento della concessione, oltre a prevedere gli obblighi gestionali in capo al soggetto, consente a quest’ultimo la possibilità di prevedere l’obbligo del rilascio di un permesso a pagamento per consentire l’esercizio della pesca dilettantistico sportiva ai pescatori associati e ad eventuali pescatori ospiti». La durata delle concessioni è fissata per un periodo di 5 anni, con possibilità di estensione fino a 10. Una domanda provocatoria conclude l’appello di Cogo: «Dopo le spiagge, ma anche le poste e la sanità, cos’altro sarà meglio se è privato?».



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