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come ci arriviamo e cosa aspettarci? #finsubito prestito immediato


Come arriviamo alla Cop 29 di Baku? Cosa è successo nell’anno che ci separa da Dubai e che si è rivelato essere il più caldo di sempre? Dalla recente elezione di Trump alla conferma di von der Leyen, dalla crisi dell’auto al rallentamento dell’economia cinese. Molto o molto poco, a seconda dei punti di vista.

La gran kermesse delle Cop riparte. Dopo Dubai, la Cop 29 sarà a Baku, in Azerbaijan, paese produttore di petrolio e di gas, esportatore dell’uno e dell’altro, a conferma della dipendenza del Pianeta dai combustibili fossili. Se anche per rinnegare i fossili – perché in ultimo questo è il vero oggetto del contendere delle Cop – occorre andare su lande che risposano sugli idrocarburi, allora vuol dire che essi sono consustanziali alla società contemporanea.

Ecco dunque ripetersi il paradosso di una società carbonica che, nel momento stesso in cui discorre delle vie per abolire il carbonio, ne emette in gran misura. L’anno scorso a Dubai si registrò il picco di 80.000 presenze, quest’anno se ne stimano di meno, 40-50.000, comunque un numero ragguardevole, segno tanto della crescita di interesse quanto dell’aumento della complessità.

I tagli non ci sono e le emissioni continuano a crescere

E si ha un bel dire che le emissioni generate dalle Cop sono una piccola frazione di ciò che esse potrebbero abbattere, perché ciò che sta accadendo è che i tagli non ci sono e le emissioni continuano a crescere: è questo che, esclusa la parentesi del Covid, ci dicono i dati da Parigi in poi.

Come arriviamo a questa COP? Cosa è successo nell’anno che ci separa da Dubai? Molto, o molto poco: dipende dai punti di vista.

Negli Stati Uniti è tornato al potere Donald Trump, un politico che non ha mai negato il proprio scetticismo climatico, al punto che è passato alla storia il suo famoso tweet sulla genesi del riscaldamento globale: “The concept of global warming was created by and for the Chinese in order to make U.S. manufacturing non-competitive”.

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Certo, non è un fatto positivo che alla testa della maggiore potenza mondiale, nonché secondo emettitore di CO2, vi sia un uomo che non crede all’origine antropogenica della crisi climatica e che, nel suo primo mandato, si affrettò a ritirare gli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi.

Trump e le emissioni Usa

Poi certo, la realtà è misteriosa e complessa e si verificano stranezze come quella per la quale i quattro anni di Trump sono quelli caratterizzati dalla maggiore discesa delle emissioni di CO2 americane e quelli di Biden – l’uomo dell’Inflation Reduction Act e dei 400 miliardi di dollari a favore delle rinnovabili – dalla maggiore crescita.

Certo, nel primo mandato di Trump ci fu il Covid – così come per Biden ci fu la ripresa – ma più del Covid fu importante la penetrazione dello shale gas ai danni del carbone che agì quale forza decarbonizzante del mix energetico.

E tutto ciò non fa altro che confermare la modesta potenza di fuoco delle politiche climatiche che non hanno sufficiente forza per spostare significativamente un’economia importante (come argomentato in un articolo con Stefania Migliavacca su ENERGIA ed emerso in un recente autorevole studio apparso sulla rivista Science). Ed è vero che in Norvegia ci sono più auto elettriche che a benzina e che dal 2025 si venderanno solo le prime. Ma la Norvegia ha solo 5 milioni e mezzo di abitanti, nemmeno un sobborgo di Chongqing, città della Cina che ne conta 32.

In ultimo, ciò che emerge osservando i dati è che nella società americana vi è una forza intrinseca – un misto di tecnologia e forze di mercato – che genera una riduzione più o meno lineare delle emissioni, a prescindere dalla Presidenza del paese e dalle policy.

Se questo è vero, più che in seno agli Stati Uniti il ritorno di Trump potrà svolgere un ruolo di freno all’esterno, propagando effetti di imitazione da parte di paesi riluttanti ad accettare tagli delle emissioni, anche a ragione di un grado di responsabilità nella questione climatica, nettamente inferiore a quello americano.

Nel contesto europeo le elezioni dello scorso maggio non hanno determinato sostanziali variazioni dell’assetto politico e ciò potrebbe far pensare che la linea delle politiche climatiche aggressive prosegua immutata (si veda l’articolo di Valeria Palmisano Chiarelli su ENERGIA 3.24).

Probabilmente non sarà così a ragione di due elementi: il primo è insito nella crescita di consapevolezza circa la difficoltà di conseguire gli abbattimenti di emissione congetturati nel Green Deal senza sconvolgere il tessuto industriale europeo. Da qui la ridenominazione del Green Deal in Clean Industrial Deal, tesa a enfatizzare la dimensione industriale del piano.

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Difficile continuare a spingere sulla penetrazione dell’auto elettrica quando le immatricolazioni di auto in Europa, in settembre, sono diminuite del 18,3% rispetto allo stesso mese del 2023, la Volkswagen minaccia la chiusura di tre stabilimenti in Germania e l’Audi di uno in Belgio. Tutto ciò si riflette inesorabilmente sulla capitalizzazione delle società: nell’ultimo semestre, Stellantis e Volkswagen hanno perso ciascuna circa un terzo del proprio valore.

Fonte: google finance

Il secondo elemento concerne il cambiamento degli attori. Se è vero che la storia è il risultato di grandi forze economiche e sociologiche, è altrettanto vero che i singoli possono svolgere un ruolo cruciale: l’uscita di scena di Franz Timmermans implicherà verosimilmente un depotenziamento delle politiche per il clima in Europa.

Le emissioni cinesi tra economia, rinnovabili e carbone

Per quanto concerne la Cina, le prime stime delle emissioni 2024 indicano che esse probabilmente non cresceranno, o forse addirittura diminuiranno lievemente rispetto al 2023. Questo risultato non deve far pensare che siamo di fronte a un cambiamento strutturale. Semplicemente la crescita economica è rallentata, tanto che si prevede per l’anno in corso un tasso di crescita del Pil intorno al 4,5%, inferiore al target del 5%.

Certo, prosegue all’interno dell’economia cinese l’espansione delle rinnovabili e la vorticosa penetrazione dell’elettrico, a differenza di quanto accade negli Stati Uniti e in Europa.

Ma si sa, trattasi di paese multiforme e poliedrico: i fondi fluiscono verso le rinnovabili ma nello stesso tempo si aprono nuove centrali a carbone. Nel 2024 sono programmati 80 GW di nuova capacità a carbone. Certo, capacità non equivale a generazione reale e per i prossimi anni si prevede un numero inferiore di permessi per le centrali a carbone, che anche dal punto di vista economico cominciano ad essere non troppo redditizie.

Tutto ciò sembra far parte di un movimento verso una riduzione della parte fossile dell’economia, ma il processo è ancora molto lento e la cautela del governo cinese sempre vigile: improbabile che nella Cop 29 esso voglia spingere verso politiche più sfidanti.

Verso un nuovo slogan sull’abbandono delle fossili?

Alla Cop 29 di Baku, non ne dubitiamo, tornerà sulla scena l’annosa questione del fossil fuel phase out, che a Dubai era stata brillantemente risolta attraverso il calambour “transitioning away”. Verosimilmente, i fautori dell’uscita dai fossili chiederanno una maggiore nettezza linguistica, come pure una scadenza temporale. Improbabile che si conseguano entrambi gli obiettivi, e forse anche uno solo.

Soprattutto, si discuterà molto dei nuovi target di finanza climatica (NCQG, New Collective Quantified Goal) partendo dalla base degli ormai famosi 100 miliardi di dollari all’anno. Secondo le Nazioni Unite, questa cifra dovrebbe essere moltiplicata all’incirca per 10, arrivando a 1,1 trilioni nel 2025, per poi salire verso 1,8 trilioni nel 2030.

Cop 29 di Baku

L’Unctad calcola che se le economie avanzate mettessero a disposizione di quelle in via di sviluppo circa 3/4 della somma richiesta, si tratterebbe di un importo intorno all’1,4% del loro reddito complessivo. È molto o è poco? Se l’importo è messo a confronto con le esperienze del passato – ad esempio, il Piano Marshall (1,3%) oppure la risposta fiscale al Covid (16,4%) – allora bisogna concludere che si tratta di cosa fattibile.

Cop 29 di Baku

Se però lo confrontiamo con la storia recente della questione climatica, c’è da essere scettici: ricordiamo che il valore dei 100 miliardi di dollari fu introdotto, per la prima volta, nella conferenza di Copenaghen nel 2009 e sono occorsi ben 13 anni prima che l’obiettivo fosse conseguito, nel 2022.

Questo il contesto nel quale la Cop 29 di Baku si svolgerà.

Sullo sfondo campeggiano i nefasti eventi dell’ultimo anno: gli uragani Helene e Milton, che hanno afflitto l’America Centrale, e la più recente tragedia della Dana che si è abbattuta sulla Spagna, causando oltre 220 morti.

E campeggia anche, secondo gli ultimi dati del centro europeo Copernicus, l’ormai certo sfondamento della barriera del grado e mezzo nell’anno in corso.  

La Cop 29 di Baku è vicina.
Parigi è lontana, quasi un sogno.

Cop 29 di Baku

Enzo Di Giulio è economista ambientale e membro del Comitato Scientifico di ENERGIA

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Foto: Fakhri Baghirov, Pexels



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