La Cassazione ha condannato un marito per violenza sessuale sulla moglie: il silenzio non equivale a consenso, soprattutto in un contesto di sopraffazione e violenza domestica.
È vero che uno dei doveri coniugali è quello della reciproca assistenza morale e che ciò comporta, tra l’altro, il non sottrarsi, senza valida ragione, ai rapporti sessuali. Questo però non toglie che si tratti, pur sempre, di atti volontari, che non possono essere oggetto di costrizione. Il matrimonio non giustifica alcuna forma di violenza. La Cassazione penale, con una recente sentenza, ha ritenuto sussistente il reato di violenza sessuale tra coniugi, condannando un marito per aver abusato della moglie nonostante il silenzio da questa serbato. L’accondiscendenza tacita non è sempre sinonimo di consenso, soprattutto in un contesto di sopraffazione e paura.
Il caso esaminato
Un marito aveva costretto la moglie a subire atti sessuali instaurando un clima divessazioni e umiliazioni.
La donna, sottoposta ad abusi psicologici e fisici, non aveva mai espresso esplicitamente il suo dissenso agli atti sessuali, ma li aveva subiti in silenzio per paura delle reazioni del marito.
Il Giudice delle Indagini Preliminari aveva condannato il marito per violenza sessuale (art. 609-bis c.p.), ma la Corte d’Appello lo aveva assolto, ritenendo che il silenzio della moglie potesse essere interpretato come “consenso”.
La Cassazione sulla violenza sessuale ai danni della moglie
La Cassazione Penale, con la sentenza n. 38909/2024, ha accolto il ricorso del Procuratore Generale e ha annullato la sentenza di assoluzione, ribadendo che il silenzio non equivale a consenso, soprattutto in un clima di violenza domestica.
Il dissenso può essere implicito: non è necessario che la vittima esprima esplicitamente il proprio rifiuto affinché si configuri il reato di violenza sessuale. Il diniego può essere desunto anche dal contesto e dal comportamento della vittima tenuto in altre circostanze, al di fuori dal letto coniugale.
Il clima domestico di sopraffazione incide quindi sul consenso se la vittima si trova in una condizione di inferiorità psicologica o di paura.
L’onere della prova spetta all’imputato: è quest’ultimo che deve dimostrare l’esistenza del consenso da parte della moglie, non la moglie che deve dimostrare il proprio dissenso. Tale regola vale per qualsiasi tipo di contestazione di violenza sessuale.
La violenza o la minaccia non devono essere continue: il reato si configura anche se la violenza o la minaccia non si protraggono per tutta la durata dell’atto sessuale ma sono sufficienti a coartare la volontà della vittima.
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