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Carmilla on line | Mutualismo, autodifesa, lavoro sociale. Il caso delle Pantere Nere – ep.2 #finsubito prestito immediato


di Jack Orlando

Brothers on the blocks
C’è una famosa immagine del 1971, ritrae dei bambini afroamericani in uniforme da scolari che marciano nel cortile di una scuola del ghetto.
È la “Intercommunal Youth Istitute”, una delle diverse scuole aperte e gestite dalle pantere nei quartieri neri.
In quel momento i militanti del partito potevano vantare la creazione e amministrazione di ambulatori e cliniche autogestite, ambulanze, programmi di recupero per tossicodipendenti, centri analisi, scuole elementari ed accademie politiche, programmi di distribuzione alimentare, mense gratuite, case comuni, un giornale da migliaia di copie al giorno e sedi di partito in tutto il paese.
Ovunque ci siano le pantere sorgono programmi di sussistenza per la popolazione nera.
C’è un solo problema: il partito è al capolinea.
Poco prima di quella foto si è spezzato irreparabilmente il legame tra il BPP e il resto del movimento e, circa un mese dopo, il conflitto ai vertici sancirà una frattura definitiva che spaccherà il partito in due fazioni rivali, impegnate in una guerra fratricida che lascerà sul campo più di un morto.

Un passo indietro.
La prima iniziativa sociale1 del BPP è sempre del 1966 e, per strano che possa sembrare, consiste nel far attraversare la strada davanti scuola a dei bambini.
Come fanno da noi i pensionati.
La cosa nasce quasi spontaneamente: l’autodifesa non si esplica solo armandosi e controllando i fermi di polizia, bensì nella cura costante della comunità e del suo territorio. Così, volantinando in giro e parlando con le persone del quartiere emerge che alcuni bambini sono stati investiti all’incrocio della scuola perché manca un semaforo.
Detto fatto, le pantere scendono in strada e controllano il traffico, accompagnano gli scolari da un lato all’altro della strada, e soprattutto si dirigono in municipio minacciando di occuparlo se non verrà messo in sicurezza l’incrocio.

Quel semaforo è la prima vera vittoria del partito e segna la strada per la futura politica del bisogno. Abitando nei quartieri in cui militano, le pantere hanno gioco facile a misurarne i problemi poiché li vivono o li hanno vissuti sulla propria pelle.
Sapendo quanti ragazzini andavano a scuola a stomaco vuoto, iniziano il programma di colazioni gratuite per bambini, che evolverà presto portando anche alla costruzione di mense e alla distribuzione alimentare gratuita alle famiglie indigenti, il “Free Food Program”. Da qui si svilupperanno centri educativi con corsi di alfabetizzazione, supporto scolastico e formazione politica, ma anche centri di raccolta di beni di prima necessità, abiti compresi.
Nella stessa maniera, la genealogia della battaglia sulla salute che porta in breve tempo alla costruzione di diverse cliniche ed ambulatori, parte da una particolare forma d’inchiesta: il test per l’anemia perniciosa. L’altissimo tasso di incidenza di questa sindrome, legata essenzialmente a carenze nell’alimentazione, praticamente inesistente nei quartieri della middle class bianca, nel ghetto era una piaga immediatamente riconducibile alle condizioni materiali degli afroamericani.
Se ne soffrono i neri, e se è legata ad una alimentazione carente, è perché la dieta del ghetto e insufficiente e di scarsa qualità, e lo è perché la povertà impedisce di nutrirsi a dovere, rendendosi così strumento di dominio attraverso la debilitazione dei corpi.
Risolvere questo problema significa rimettere in salute il corpo sociale del ghetto, aiutarlo a rimettersi in forze per scuotersi di dosso le catene, cosa che nell’immediato si traduce in condizioni di vita migliori per le famiglie.
La dialettica teoria prassi è ben presente anche nel semplice atto di offrire colazione e vitamine a un bambino.

Bisogna tenere a mente un fatto: se è stato possibile per il BPP sviluppare tutta questa mole di programmi in tali dimensioni, lo è stato per il supporto fornito dalla comunità. Piccole botteghe che hanno donato abitualmente le rimanenze dei negozi, medici ed infermieri che hanno prestato la propria opera, vicini che hanno fatto collette, parrocchie che hanno offerto i propri spazi per le attività.
In effetti le pantere non hanno inventato proprio nulla. Iniziative di solidarietà e mutuo aiuto innervano nel profondo la vita dei ghetti, molto più dei diversi programmi sociali messi in campo dalle istituzioni.
È una galassia fatta di chiese e congreghe, associazioni, collettivi, gruppi di vicinato, famiglie e amicizie che si prendono in carico come possono dei problemi comuni.

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Per comprendere questa realtà bisogna andare a interrogare le forme specifiche di costruzione storica della comunità afroamericana: essa non nasce nei ghetti o nelle marce pacifiche, ma sulle navi negriere e nelle baracche al margine dei campi di cotone.
È la schiavitù il mito fondatore e la genesi sociobiologica condivisa di ciascun singolo afroamericano, e questo è un dato che permea la coscienza individuale tanto quanto quella collettiva, è un elemento talmente forte che la sua realtà può essere considerata a tratti come la spina dorsale della storia degli Stati Uniti.
Lo spettro della schiavitù è una presenza quasi fisica, così dolorosa e profonda da farsi tradizione, retroterra culturale, straborda dalla Storia e lo si rintraccia nella musica, nella letteratura, nel senso comune e, ovviamente, nelle forme materiali in cui la comunità afroamericana è andata costruendosi.

È noto che l’organizzazione del tempo e del lavoro durante il lavoro dei campi, non comprendesse la rigida divisione dei ruoli di genere tra la sfera produttiva e riproduttiva della società bianca: uomini e donne lavoravano dall’alba al tramonto nei campi ed i bambini, quelli non ancora abili al lavoro almeno, venivano accuditi dagli anziani, la cui sussistenza era a loro volta assicurata dalla comunità degli schiavi.
I momenti di preghiera e di festa, il pasto condiviso, le notti passate a stare insieme per imparare a leggere di nascosto, per risentirsi umani e proteggersi da un mondo ostile e alieno hanno cementato le basi di un rapporto collettivo che era in grado di accogliere i figli altrui quando venivano venduti da una piantagione all’altra, ritagliarsi dei margini di autonomia e scampoli di benessere, così come di organizzare vere e proprie rivolte ed evasioni.
Un tale modello sociale, con tutte le sue contraddizioni, evoluzioni ed ibridazioni, è finito per sopravvivere alla schiavitù, attraversando la segregazione legale e quella de facto, tessendo il filo di quelle relazioni sociali che compongono la “nazione” afroamericana ancora oggi.
Detto altrimenti, bisogna interrogare il fiume carsico della costruzione storica di una comunità per leggere l’impatto e il senso delle sue pratiche e il modo in cui esse vengono recepite.


[continua…]
[qui il primo capitolo]


  1. È bene sottolineare la differenza tra l’iniziativa sociale e la pratica mutualistica: laddove questa presupponga una relazione paritetica e soprattutto di reciproco scambio, spesso su una base di spontaneità o di consuetudine; l’iniziativa sociale opera sullo stesso piano di risoluzione di un bisogno ma lo fa in maniera organizzata ed unidirezionale, ossia da un soggetto che elargisce ad uno che usufruisce. Nel caso specifico: dal partito, al fine del suo radicamento e consenso, verso la base. 



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